31 luglio 2007

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Alle fonti del Clitumno

Memoria impone del nobel Carducci
di dar almeno l’occhiata furtiva
di meraviglia (?)  ai luoghi che dieder 
l’ispirazione;

Con me ho l’ode, stampata con cura 
prìa di partire, ma non l’ho riletta, 
non mi càpita dai tempi di Hegel
e Modigliani .

Poiché nel viaggio giungiam da Spoleto 
ed or dobbiamo spostarci a Foligno 
non potevamo scordarci di nostra
letteratura

(Sì, so che appare un poco balzano
fermarsi ad Eboli andando in Lucania
ma io lo feci… E andai da un barbiere
giunto a Siviglia…)

Il mezzo in strada parcheggiato giace
in una ombra calcolata fitta 
tempo che Febo trascini il suo giorno 
d’almeno un’ora

Seguendo dritti il suono dell’acqua. 
impertinente la rete del parco 
di lì ci avverte che non si passa; 
qua c’è un biglietto

ahimè da pagar per vedere cosa 
che il buon Carducci ha visto e descritto… 
Non c’era rete ai tempi suoi belli, 
scommetterei…

Nello stanzino di biglietteria
paghiamo infatti un “dante”  a testa,
la poesia con la poesia
par quasi giusto

anche se un Dante è troppo per Giòsue.
La signorina seduta alla cassa 
altro ha da fare e colta in sorpresa
nemmeno poggia 

giù la cornetta, solleva la spalla 
a conversare segue con l’amico
mentre ingoffita stacca i due biglietti 
sdegnando gli ori. 

Sì e no volge per noi due un guardo
Va tutto bene? Che facciam? Usciamo!
Esposte al vetro granaglie per paperi
come a Venezia.

Potenza grata dei Mida poeti
che quel che toccan trasformano in oro!
Cerco una panca che le stanche membra
ci risollevi

o un tratto d’ombra per gustar le pesche 
che abbiamo portato nella borsa frigo, 
contravvenendo al chiaro divieto 
di consumare 

alcuna cosa all’interno del parco…
tosto ed ecco fronte a noi la pozza 
dell’acqua verde che deve qualcosa
aver di mitico 

o di storico, ma da qui tutto 
vien tentazione di già liquidare
con l’eloquente moderno banale
“Quant’è carino…”

Nuotan germani e più in là due cigni
beati loro, ché l’acqua possiamo 
noi solamente toccar col pensiero
desiderante

Sono le due del cotto meriggio: 
abbiam deciso di fare qui tappa 
proprio a quest’ora per sfuggire al caldo 
bruto e violento 

Nessuna panca riposa del tutto 
completamente salvifica in ombra, 
e anche all’ombra il caldo colpisce
mite e violento… 

Procede lento un germano reale
dietro la bella lo segue a distanza:
sembriamo Giulia ed io per l’Umbria: 
io sempre avanti


e quando il piede si ferma lei giunge
alfine al fianco ma tosto riparto 
che c’è qualcosa d’altro da guardare 
ed imparare…

Poi che ci siamo sistemati bene
su di una panca, tolgo i dieci fogli 
di borsa frigo (ove persin la carta 
mantiene meglio) 

Tutto ora tace, tranne la mia voce
che quasi induce la saliente vena
tremar, e d’un lieve pullular lo specchio
segna de l’acque.

E da subito una sensazione 
di fastidio e di falso gronda dai versi: 
qui certo venne degl’Umbri il fanciullo
calmo e sereno

a beverare l’assetata greggia
ma certo i tori non sbiancavano 
per esser pronti al vil sacrificio, 
d’angoscia semmai;

verde un ramarro (la banal lucertolola!) 
s’inerpica in alto seguito dall’occhio
lungo la corteccia d’un gelso più scuro
(ilice nera!)

avrà pur Roma trionfato grande 
ma poi s’evolse nel truce imperiale
Stato idolatra di sé, precursor del
mostro nazista… 

Meno male che un Giudeo rosso
di chioma e barba, ma forse d’amore, 
all’uomo diede un’altra visione 
un’altra sorte… 

Ma dove sono le turbe maestose  
di salmodianti monaci pensosi
che legan forte i libri di Dio
e di Natura?

Dove giungono le loro soavi
note che al Cielo l’animo combinano?
qui sol turisti con sandali e borse
uguali in serie

gran da buttare ai cugini germani
turisti stanchi con calzini bianchi
cui d’entusiasmo al correr di quelli
s’accende il viso 

E meno male che adesso tra i lecci 
stanno anche i salici, noia altrimenti 
era di legna d’ardere completo
un cimitero

Leggo e rileggo le saffiche strofe
d’un’emozione cupido al riposo…
dunque son queste le rime che tanto
furon lodate? 

Sol vana pompa, ma di sentimento
non resta traccia nell’ode motosa;
caro poeta, ho io il nome 
giusto per te: 

ecco: Cartucce; ti piace Cartucce? 
ché di retorica son munizioni 
quelle che spari l’una sopra l’altra… 
ta-pum, ta-pun, tah

e ancor meglio Ciòdue Cartucce, 
tu che a Mosello sembrar non volendo 
frate (peccato vedere per primo 
terra promessa)

nella battaglia d’anticlericale
da sciocco masson spostasti l’accento 
come l’Àspesi di nom Natalìa 
vecchia bacucca

Sì, sulle balle stai, caro Cartucce, 
antesignano di Natàlia Aspési 
tu e i due soldi che non meritavan
d’essere spesi…

Salve, o serena de l’Ilisso in riva,
intera e dritta ai lidi almi del Tebro
anima umana! I foschi dì passaro,
risorgi e regna.

Lasciam perdere, Giulia, andiamo via
ce ne freghiamo del cippo d’Ojetti
pur retorica d’un’altra infornata:
Spello ci aspetta!
Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
frassini al vento mormoranti e lunge
per l’aure odora fresco di silvestri
salvie e di timi,
 
scendon nel vespero umido, o Clitumno,
a te le greggi: a te l’umbro fanciullo
la riluttante pecora ne l’onda
immerge, mentre
 
ver’ lui dal seno del madre adusta,
che scalza siede al casolare e canta,
una poppante volgesi e dal viso
tondo sorride:
 
pensoso il padre, di caprine pelli
l’anche ravvolto come i fauni antichi,
regge il dipinto plaustro e la forza
de’ bei giovenchi,
 
de’ bei giovenchi dal quadrato petto,
erti su ‘l capo le lunate corna,
dolci ne gli occhi, nivei, che il mite
Virgilio amava.
 
Oscure intanto fumano le nubi
su l’Appennino: grande, austera, verde
da le montagne digradanti in cerchio
L’Umbrïa guarda.
 
Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
nume Clitumno! Sento in cuor l’antica
patria e aleggiarmi su l’accesa fronte
gl’itali iddii.
 
Chi l’ombre indusse del piangente salcio
su’ rivi sacri? ti rapisca il vento
de l’Appennino, o molle pianta, amore
d’umili tempi!
 
Qui pugni a’ verni e arcane istorie frema
co ‘l palpitante maggio ilice nera,
a cui d’allegra giovinezza il tronco
l’edera veste:
 
qui folti a torno l’emergente nume
stieno, giganti vigili, i cipressi;
e tu fra l’ombre, tu fatali canta
carmi o Clitumno.
 
testimone di tre imperi, dinne
come il grave umbro ne’ duelli atroce
cesse a l’astato velite e la forte
Etruria crebbe:
 
di’ come sovra le congiunte ville
dal superato Cìmino a gran passi
calò Gradivo poi, piantando i segni
fieri di Roma.
 
Ma tu placavi, indigete comune
italo nume, i vincitori a i vinti,
e, quando tonò il punico furore
dal Trasimeno,
 
per gli antri tuoi salì grido, e la torta
lo ripercosse buccina da i monti:
tu che pasci i buoi presso Mevania
caliginosa,
 
e tu che i proni colli ari a la sponda
del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
sovra Spoleto verdi o ne la marzia
Todi fai nozze,
 
lascia il bue grasso tra le canne, lascia
il torel fulvo a mezzo solco, lascia
ne l’inclinata quercia il cuneo, lasci
la sposa e l’ara;
 
e corri, corri, corri! Con la scure
e co’ dardi, con la clava e l’asta!
Corri! Minaccia gl’itali penati
Annibal diro.-
 
Deh come rise d’alma luce il sole
per questa chiostra di bei monti, quando
urlanti vide e ruinanti in fuga
l’alta Spoleto
 
i Mauri immani e i numidi cavalli
con mischia oscena, e, sovra loro, nembi
di ferro, flutti d’olio ardente, e i canti
de la vittoria!
 
Tutto ora tace. Nel sereno gorgo
la tenue miro salïente vena:
trema, e d’un lieve pullular lo specchio
segna de l’acque.
 
Ride sepolta a l’imo una foresta
breve, e rameggia immobile: il diaspro
par che si mischi in flessuosi amori
con l’ametista.
 
E di zaffiro i fior paiono, ed hanno
dell’adamante rigido i riflessi,
e splendon freddi e chiamano a i silenzi
del verde fondo.
 
Ai pié de i monti e de le querce a l’ombra
co’ fiumi, o Italia, è dei tuoi carmi il fonte.
Visser le ninfe, vissero: e un divino
talamo è questo.
 
Emergean lunghe ne’ fluenti veli
naiadi azzurre, e per la cheta sera
chiamavan alto le sorelle brune
da le montagne,
 
e danze sotto l’imminente luna
guidavan, liete ricantando in coro
di Giano eterno e quando amor lo vinse
di Camesena.
 
Egli dal cielo, autoctona virago
ella: fu letto l’Appennin fumante:
velaro i nembi il grande amplesso, e nacque
l’itala gente.
 
Tutto ora tace, o vedovo Clitunno,
tutto: de’ vaghi tuoi delùbri un solo
t’avanza, e dentro pretestato nume
tu non vi siedi.
 
Non più perfusi del tuo fiume sacro
menano i tori,vittime orgogliose
trofei romani a i templi aviti: Roma
più non trionfa.
 
Più non trionfa, poi che un galileo
di rosse chiome il Campidoglio ascese,
gittolle in braccio una sua croce, e disse
Portala, e servi -.
 
Fuggîr le ninfe a piangere ne’ fiumi
occulte e dentro i cortici materni,
od ululando dileguaron come
nuvole a monti,
 
quando una strana compagnia, tra i bianchi
templi spogliati e i colonnati infranti,
procede lenta, in neri sacchi avvolta,
litanïando,
 
e sovra i campi del lavoro umano
sonanti e i clivi memori d’impero
fece deserto, et il deserto disse
regno di Dio.
 
Strappâr le turbe a i santi aratri, a i vecchi
padri aspettanti, a le fiorenti mogli;
ovunque il divo sol benedicea,
maledicenti.
 
Maledicenti a l’opre de la vita
e de l'amore, ei deliraro atroci
congiungimenti di dolor con Dio
su rupi e in grotte;
 
discesero ebri di dissolvimento
a le cittadi, e in ridde paurose
al crocefisso supplicarono, empi,
d’essere abietti.
 
Salve, o serena de l’Ilisso in riva,
intera e dritta ai lidi almi del Tebro
anima umana! I foschi dì passaro,
risorgi e regna.
 
E tu, pia madre di giovenchi invitti
a franger glebe e rintegrar maggesi
e d’annitrenti in guerra aspri polledri
Italia madre,
 
madre di biade e viti e leggi eterne
ed inclite arti a raddolcir la vita,
salve! A te i canti de l’antica lode
io rinnovello.
 
Plaudono i monti al carme e i boschi e l’acque
de l’Umbria verde: in faccia a noi fumando
ed anelando nuove industrie in corsa
fischia il vapore.