POSTFAZIONE di Sergio Amurri
La realtà dietro le apparenze, lo sbaglio di Natura, l’anello che non
tiene. Questa è la logica, che, come un architrave, sostiene 7 e vinti... racconti
finti, prova di forza intellettuale da parte di un Autore ormai dotato
di una fisionomia ben definita.
Carlo Dariol, perché è di lui, che si parla, deposti endecasillabo, cesura
e rima, con il suo ultimo libro presenta la sua faccia più pacata,
composta, eppure, al tempo stesso, sulfùrea, al punto tale da risultare
perturbante.
Tecnica e cultura sopraffine, in ogni modo, non ne obnubilano la
cristallina ispirazione. Semmai la esaltano. Riga dopo riga, le storie si
snodano, irresistibili, con l’apparentemente pacata ironia di uno stile
semplice e chiaro. Ma dietro l’apparenza, ogni volta, la realtà della vita
vissuta – “la realtà della vita vissuta!” – emerge, prepotente, a tratti
strafottente, come in un “karamazoviano” (o, se preferite, “wellesiano”,
basti pensare alla Signora di Shangai) gioco di specchi infranti.
Così, secondo un calcolato gioco alfabetico, alla perfidia di Bromuro
fa séguito un perverso ritratto caprese, con dentro “quella” frase
simbolica, piccola metonimia dell’intero corpus: “Raramente le buone
azioni rimangono impunite”.
Sì, perché la “verità” del matematico di Croce risiede tutta in quelle
“sorrise parolette brevi” (così Dante definisce la voce di Beatrice, la
quale in Paradiso lo canzona dolcemente, perché il pellegrino ha paura
di volare), termini snocciolati con la consueta, apparente, casualità.
Presenta sempre il conto la “vita agra” di personaggi comuni in circostanze
straordinarie (l’inquietante Withlack, forse alter ego dello scrittore,
nell’ultimo capitolo) o di privilegiati (il politico russo, il figlio del
campione). Anche se, inutile negarlo, la “resa dei conti” è “solo” amara,
implode, proprio come avviene in Cos’è la perfezione: “Papà, io ho
sempre giocato, perché piaceva a te, ma il baseball mi fa schifo”, rivela
il protagonista e, fateci caso, supera di un salto l’archetipico “Te piace
’o presepe?” – “No!”, che Luca Cupiello e suo figlio Tommasino, ciascuno
chiuso nella propria gabbia mentale, continuano a scambiarsi nel
dramma natalizio di eduardiana memoria.
E sarà sempre così, perché, giocoforza, il cosmo narrativo di Carlo
Dariol è tutto interiore. È il mondo, per dirne una, di un padre, che,
con fare “all’apparenza” indifferente, si accosta gattesco al tavolo delle
pizzette per non mettere in imbarazzo suor Paola, la quale a sua volta
non sa dove guardare. Eppure, invisibile, dentro il cuore di quel padre
esplode iperbolico un ossimoro latente, la perfezione di Dio. È, forse,
si parva licet, uno dei vertici poetici dell’intera raccolta, per quella sua
compassione fin fastidiosa, per quel paradossale suo tenere l’ipocrisia
dentro i limiti angusti, odiosi, insopportabili di un sentimento sublime,
sì, ma sempre represso, sempre mortificato, sempre “osceno”, nel senso
etimologico di ob scaenum, tenuto fuori scena, accennato, intuìto.
A parte il fatto che anche l’episodio dello zoo-safari maledetto non è
niente male, con quella zampata elefantesca, che “sul suo cuore fu pari
a quella sulla carrozzeria”. Molto bello anche Gaiotto e Verderame, che
rimanda alle atmosfere monicelliane della Grande Guerra ed intreccia
espedienti letterarî efficacissimi intorno al classico concetto di “italiani”
combattenti in nome e per conto di una Patria “stupenda e misera”,
come avrebbe detto il poeta delle Ceneri di Gramsci.
Sulla stessa falsariga (e quanto “falsa” è, quella “riga”!), sebbene in
un contesto del tutto differente, si svolge la crociera di Gelosia con
il suo gustoso fulmen in clausula, cioè l’espediente marzialiano della
battuta finale presente anche in Ma come si fa. In quest’ultimo caso,
tuttavia, il trucchetto alla Marziale, tanto apprezzato dallo stesso Berlusconi,
è connotato da una visione cosmica alla Frederic Brown, mentre
non meno patetico e toccante è Il gobbo che volle farsi prete.
Ancora, e sempre, storie di tutti i giorni, le quali, anche quando
sfiorano l’eccezionalità o il personaggio da rotocalco, così come nel
mirabile Il precettore del figlio di Totti, poi ripiombano inesorabili nella
sfera morale delle “buone cose di pessimo gusto”, con buona pace di
Guido Gozzano. Il che vale, a maggior ragione, per il disabile dei disabili,
il professor Hawking, fin dal nome falco e re insieme, che, novello
“Stranamore”, mette in crisi le traballanti certezze etiche di un solerte,
quanto ignobile, funzionario aeroportuale.
E poi storie di povere ambizioni fallite, di tiepidi letti, d’inutili sogni
traditi, interrotti solo dalla costruzione perfetta e dall’indimenticabile
chiusa de La cioccolata fa male ai cani. Ti chiedi se sia, questo, il punto
“G” del patchwork narrativo, ma non fai in tempo a rispondere, ché un
altro centro nodale di 7 e vinti... racconti finti si scopre in La giuria, al
margine dell’auto-biografico, così come rivela anche la kafkiana iniziale
puntata del nome del protagonista (“K.”, come Karl), che direttamente
rimanda all’angoscia esistenziale del Processo, ma con un’ansia girata
in farsa e, di nuovo, con un narrato straordinariamente terso nella sua
circolarità.
D’altra parte, un climax dell’approfondimento psicologico si trova
nei credibilissimi “detto-non detto” di Materassi, situazione “buñueliana”,
metafora del lager, nella quale il narratore s’immerge in prima
persona come un porco tra le mele, coinvolgendo vicini di casa, amici
e famigliari.
Sul fondale di cartapesta, si sa, fin dal titolo, 7 e vinti... racconti finti,
sorta di scivolamento di senso dialettal-enigmistico, c’è sempre Croce,
“piccola patria” municipale, poco più che un villaggio alle porte
del grosso centro agricolo, frazione sperduta di provincia brulicante,
eppure resa vividamente, leopardianamente universale da quel sottile
gioco elusivo, di ripicche, finte, controfinte, sottintesi, che ormai ben
conosciamo. E la teoria degli inganni e degli auto-inganni diventa armonia
del “tra le righe” in Nèmesi, non a caso una delle storie con il
maggior numero di rimandi psico-fisici e corporei, forse la più densa
di futuri sviluppi per lo sfondo sociologico, alla stessa stregua di Miss
Italia, che a sua volta tocca tangenzialmente l’assurdo establishment
dello spettacolo, per poi spalancare, invece, il labirinto misterioso della
psiche umana con la grandiosa aposiòpesi finale: “E in quel momento
il sentimento di lui si mutò in una smorfia...”, sorta di sphràgis autoriale
della stessa serie de “la sventurata sorrise...”.
E che dire di Per trenta denari, se non che cela in seno, sorta di
serpe proverbiale, un apologo tristissimo, metafora della vita, denso di
nouances, ennesima tessera di un puzzle fantasmagorico? Il mondo di
Carlo Dariol, con i suoi colori bigi, con le sue voci smorzate, con la sua
allegra malinconia, è tutto là, in una frase sospesa a mezz’aria, in una
muta richiesta d’affetto, in uno sguardo carico di disperata speranza.
Perché lui, Dariol, equivale al suo ultimo personaggio, quello che
“amò caratterialmente chi si schierava da una parte o dall’altra. Ebbe
amici ed ebbe nemici, collocandoli nettamente entro l’una o l’altra delle
due categorie. Ma tra i nemici ebbe coloro che gli altri, i suoi amici, solevano
collocare nella categoria dell’indifferenza”. Capito? No? Allora,
andate a ripassare il terzo canto dell’Inferno e poi ne riparliamo. Buona
lettura.
POSTFAZIONE dell’Autore
Alla presentazione di Sergio Amurri, che ho apprezzato
moltissimo perché centra moltissime allusioni disseminate nel libro (e
perché mi fa risultare più intelligente e bravo di quel che sono) mi
permetto di aggiungere un breve commento a spiegazione delle mie
intenzioni nascoste, che Sergio ha preferito lasciare in diparte per non
scrivere un libro sul libro, ma che ritengo di dover comunicare al lettore
a finale giustificazione.
Nella postfazione di Amurri non vi è nessun
riferimento a due dei primi racconti perché glieli ho fatti avere in
ritardo: sono racconti di natura "critica" e criptica, che
riflettono sul senso dell’arte e in particolare sul giudizio dell’arte
(Arte astratta) e sul valore "pratico" (in senso
kantiano) della filosofia (Clochard, osservando che K. e H. sono le
iniziali di Kant ed Hegel, oltre che una reminiscenza kafkiana, non unica
nel libro. Nessuna riflessione basta mai). In quei racconti, come in
altri, dovrebbe emergere il fastidio per i tecnicismi delle varie
discipline, fastidio e satira che emergono anche in La giuria, in Nemesi,
in La cena di Bùrbia, in Tribuna elettorale vicentina. Il
tecnicismo per se stesso perde il senso se non favorisce la comunicazione.
I racconti inseriti in questa raccolta sono (solo) 27
su un totale di 170, numero al quale assomma la mia attuale produzione:
non è un numero casuale il 27, è un cubo, che ritorna anche nel mio Nastro
di Moebius costituito di 27 capitoli, la mia è la Compagnia del Cubo,
la mia associazione è ElevaMente al Cubo, con la C maiuscola... Come direbbe Flaubert: "Il Cubo sono io"
I racconti sono scelti in base a una loro omogeneità di
cui ha già detto benissimo Amurri: il filo rosso che li lega è l’assunto
che la bellezza si porta dietro (o dentro) il male (Clochard, Che
cos’è perfezione, Miss Italia): la cosa è medievale, barocca,
faustiana. Ma è anche religiosa. Nella sequenza dei racconti vi è un
ordine predisegnato? No, se può dirsi casuale l’ordine alfabetico... Ma
basta cambiare il titolo a un racconto perché muti la sua posizione all’interno
della raccolta: è accaduto a Clochard che si chiamava Barboni,
che a mio avviso ha cambiato luce dopo Bromuro. I titoli non sono
roba da niente, sono capaci di mutare il senso di un articolo, figurarsi!,
come diceva la moglie di sior Lunardo. Dentro quell’ordine ci si può
stare di malavoglia, "a pigione", ma ci si sta, come allievi d’una
classe cui tocca il destino d’esser primo o ultimo. C’è una
disposizione "fatuale" (non "fattuale"), dentro l’ordine
stabilito dall’alto bisogna starci e recitare la propria parte.
Sète e vinti (come un’ora del giorno, come l’ora
segnata dall’orologio in copertina) e non vintisète, perché sète e
vinti è un’ora banale, come banali apparentemente gli episodi narrati...
e soprattutto finti perché, oltre all’adusato gioco di rime spesso
presente nei miei titoli, qui, partendo da uno spunto reale, da un
trafiletto di giornale, da un paragrafo di un libro di storia o da una
rivista di medicina, il racconto sviluppa una possibilità immaginaria, finta
(da "fingere" nel senso di "raffigurare", ma reale,
realistica, realissima nella sua rappresentazione).
Nessun altro filo tiene insieme i ventisette racconti?
C’è un filo (di che colore? azzurro?) di rimandi
interni, da racconto a racconto, che genera un secondo possibile ordine,
ravvisabile a lettura ultimata. Sfido il lettore a delinearlo completamente.
È questo il vero ordine? Nemmeno: se quello "fatuale" è
incomprensibile, quello "fattuale", certamente più umano, perché
più pensato, è in fondo altrettanto posticcio, come posticci sono i legami
che vogliamo ravvisare tra le cose che accadono. Ma offre l’impressione
che tout se tient, e che dal reale non si scappa. In Italia è
possibile collegare due persone A e B a caso con non più di tre passaggi
intermedi: A conosce C, che conosce D, che conosce E, che conosce B.
Anche in questo volume, come in Dódese storie in
Crose (dove i racconti erano tredici) c’è (l’accenno di) un
racconto senza numero: è Kapri, scritto in esperanto. Che cos’è un
racconto in esperanto? La dichiarazione abortita di un sogno? Forse.
C’è un discorso religioso che lega i racconti e che
costituisce l’altro filo rosso, il vero filo rosso del libro... ma non è
in fondo lo stesso filo? (Vedi Clochard, Che cos’è perfezione,
Il gobbo..., L’uomo che lavorò per Dio, Per 30 denari).
Su quali variazioni - più o meno finte - poggia il senso dell’esistenza?
Alla fine - uno nemmeno se l’aspettava - si scopre che questo è un libro
religioso che dice che la vocazione va seguita, inseguita, realizzata a
dispetto dei tecnicismi e delle gerarchie: vedi Il gobbo che volle esser
prete; e vedi anche l’uso dell’Esperanto decenni dopo che l’Europa
ha definitivamente rinunciato alla ricerca di una lingua comune per gli
europei: fallito l’esperanto in quanto esperimento linguistico, in realtà
il sogno d’una lingua comune del modo non muore perché offre un ideale
logico di comunicazione universale.
CARLO DARIOL
P.S. per chi non fosse riuscito a rintracciare il “filo azzurro”...
1. Arte astratta
15. La cioccolata fa male ai cani
2. Bromuro
25. Per 30 denari
4. Clochard
16. La giuria
14. La cena di Bùrbia
8. Gelosia
19. Ma come si fa
18. L’uomo che lavorò per Dio
24. Orazio e Curiazio
5. Corvo Bianco
17. Le memorie del maggiore Barbalunga
9. Gaiotto e Verderame
10. Il gobbo che volle esser prete
11. Il precettore del figlio di Totti
12. Il ritorno del professor Hawking
20. Maltrattamenti
21. Materassi
23. Nemesi
26. Tribuna elettorale vicentina
17. È stato un elefante
13. Indovina chi viene a letto
27. Whitlack che vedeva in bianco e nero
3. Capri
22. Miss Italia
6. Cos’è perfezione
|