8 aprile 2023, Sabato santo

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Forza, Italia - ULTIMO ATTO

Siamo giunti alla fine. O quasi. 
Fosse morto ieri, venerdì santo, la battuta 
era scontata: avremmo aspettato due giorni 
prima di pronunciare l’ultimo verdetto, 
per controllare che non risorgesse pure lui
(era la vignetta 
che accompagnava la sua megalomania, 
famosa come quella di lui che si spara alla tempia
pronunciando: “Sconfiggerò il cancro”)
Che senso ha augurarsi la morte del nemico politico
come facevano ieri sui social
i progressisti da sbarco
e i comunisti nel QI?

La desiderammo,
la morte di Silvio
(rimembri ancora quel tempo?),
detestandolo quand’era in forze, 
consapevoli da subito 
appena “discese” in campo
(lui si spostava con gli elicotteri)
della catena di jatture che la sua persona
e le sue “visioni” avrebbero prodotto nel tessuto sociale
italiano
col suo carico di furbizie e corruzione:
era già tutto scritto, lo sapevamo, 
e nulla giova l’aver detto 
per ventinove anni
“Lo sapevamo”.

Se non fosse stato lui sarebbe stato un altro. 
Chi lo sa. Fu lui, il maledetto.
Nel pieno delle legislature d’inizio millennio
fatte di leggi assurde a difesa
di attività e interessi, di corruzioni 
e disonestà,
promettevo a mio padre una grande festa 
in occasione del funerale di Berlusconi,
che si tenesse pronto,
che certamente l’avrei invitato, senza tener conto
che, come Silvio (e Pippobaudo),
era anche lui del 1936, 
ed era mio padre il meno attrezzato 
a sopravvivere all’accoppiata di coetanei.

“Il leone tornerà”. “Sta meglio.”
Ha telefonato a Meloni e Salvini, e non vede l’ora.
Ma non può tornare, è inguaiato fino al collo
malato di leucemia 
alla sua età non è previsto il trapianto di midollo.
La letteratura medica dice che non arriverà a novanta,
il Cavalier Bandana,
il Cavalier Banana,
il sempregiovane Silvio che a quelle cifra
ne ha viste tante.
Paniz, che salvò Unabomber, confessa piangendo
col suo accento da poénta e tocio
e la faccia di coccio
che certi grandi uomini li si vorrebbe
immortali.
Anche no.

È normale che si dolgano 
i tifosi del superMilan che vinse varie coppe dei campioni
(non diventò forse berlusconiano 
solo perché milanista
il Cocco 
sempre in prima fila nella sua gioventù operaia 
e comunista 
a prender botte 
dai celerini ai cortei sindacali,
fatti di fuffa e rituali?);
e gli altri duecentomila 
che l’acquisto di Balotelli trasformò in voti,
in questa Italia dove grazie ai media
gli elettori diventano tifosi
e viceversa, ché l’elettore medio
ha la preparazione di uno di seconda media.

È normale che si dolgano della sua malattia 
i calciatori del Monza
passati dalla C alla A grazie a lui
che sempre ebbe mano sicura nel calcio.

È normale che si dolgano della sua malattia
i forzitalioti, 
gli insipienti leccaculo che dal nulla assursero 
a figure di politici, 
e, rimanendo entro i dieci chilometri,
il vanesio assessore alla cultura
che, insegnata matematica per trent’anni,
ancora non sa che cos’è un predicato logico;
o il chiacchierone afasico
sordo a tutte le soluzioni di famiglia,
che per anni ostentò la lettura del Pornale
di cui invece si sarebbe dovuto vergognare
(del resto c’è anche chi si ostina a vedere in Siffredi 
non un cazzone
ma un maitre a penser).

È normale che si dolga della sua malattia
chi scambiò Forza Italia per la nuova DC e trovò casa,
e chi, entrato in politica nella Lega Nord
sputando sulla DC,
governò grazie a lui,
come il parlamentare delle nostre parti
che con altri trecento forti votò (ordini di scuderia!) 
che lui davvero credeva che Ruby
fosse la nipote di Mubarak.
L’ha cambiata lui o stava già cambiando da sé, 
l’Italia craxiana che oggi scivola più destra?
Imprescindibile, inevitabile destino
con quel ricco proprietario di partito che ha comprato
quel che ha voluto
e chi ha voluto,
amico di Putin e precursore di Trump
ricco di soldi e figa
di figa perché ricco di soldi
mito della mezza Italia bella 
che ragiona 
con le stesse due categorie
ma non ha né questi né quella.

E ce ne vogliono di soldi per indurre la trentenne di turno
a entrare nel letto,
penultima la Pascale
(“non credevo di averle trasmesso tanto amore per la figa”,
fenomenale)
e ora la “non moglie” di cinquant’anni più giovane:
ma te la vedi la Fàscina
che fa l’amore con lui?
Cos’è che l’affascina?
Un certo grado di schifo bisogna pure provarlo.

Lo sostiene il corteo di golpisti che assalì il palazzo 
di giustizia di Milano
stipendiati che poco dovevano a sé stesso
e tutto a lui
cialtroni e servi, più o meno fedeli,
con la gallina padovana e tutte le altre amazzoni
che ringraziavano per la carriera 
(vi ricordate Brunetta che istruiva le veline per essere elette alle Europèe?)
mentre semplici trastulli erano 
le olgettine
derubricate a orgettine.

Ultimamente erano le badanti,
maschi e femmine,
che lo hanno persino votato presidente della Repubblica.

Quante e quanti gli devono riconoscenza!
Tartaglia, che gli spaccò la bocca con la statuetta del duomo,
chiese scusa, e fu perdonato,
perché in fondo Silvio è buono,
è la sua idea di società che appare un’indecenza.

E oggi lo sostengono
i giornaletti che registrano la lettera del deficiente
sedicenne che non ha visto “la discesa in campo”
né lo ha mai visto governare
e tuttavia lo ha elevato a mito
(ripete quello che in famiglia sente).
E ci saranno tra trenta o quarant’anni
altri bocchie deficienti che lo ameranno senza sapere 
i danni che ha provocato, 
così come ogni anno è nutrita la pattuglia di èbeti
che il 29 luglio vanno a piangere a Predappio.

Putin (e le persone “perbene” che il dittatore russo 
voleva mettere al governo 
invadendo l’Ucraina ed eliminando il delinquente di Zelensky;
ma dico: si può essere così coglioni?)
la flat tax
il ponte sullo Stretto
i soldi al mondo del calcio
il Milan:
tutte grandi idee che cammineranno sulle gambe del suo erede 
politico, il Mona che vive di felpe e selfie,
che nemmeno fu capace di prendere una laurea di terza categoria;
Silvio, almeno, la laurea in giurisprudenza, 
quella di tanti Teste di cazzo,
se l’era presa e l’aveva fatta fruttare, 
e con sua parlantina,
dicevano altre barzellette, sempre amare, 
l’aveva messa... anche a Dio.
Sì, proprio int’el dadrìo.