Edizioni del Cubo


XXV APRILE
poesie e racconti


Prefazione di Sergio Amurri
Dedica
La Roman si sposa
Il collega va...
      ...in pension (versione in dialetto)
La burla del gran Zamburla
Scontro tra titani (racconto)
’A frana coppia
       La frana coppia (versione in italiano)
Distratto
Mia moglie, mio marito
Amuri e-storti
A
Superquack
Dopo sei mesi, Marta
Troppo buoni con le donne
Costella senza stella
Architetti mancati
Ma...
Avverbi
L’ispirazione
Come una geisha
La pazienza della Cippy (racconto)
Autoritratto
Finale di Rugby (racconto)
Bon
Ora di supplenza (racconto)
Suicidi
Fastidio
Siamo soli
Mimosa
L’é furbe
La mia lingua
Che bigolo!
Riservatezza
La poveretta
Il lavoro degli educatori
Volevo picchiare uno studente (racconto)
Ramazza, oh!
Tosse
’E femene l’é bravissime
Tovaglia di Fiandra (racconto)
      Il bove I
   Il bove II
Il bove III
Si potrebbe…
La loggia dei cari addii…
   1. Pierina
   2. Marina
   3. Rosa
   4. Emilia
Giudizi (“cretino”)
Stanca Eva
Filosofi e filoso-fesse
Monologo circolare uniforme (racconto)
Zio Nista
Berlin... chi... eri?
Controfagotto
La leggenda di re Enzo

 

Prefazione di Sergio Amurri 

Carlo Dariol arrivò a Portogruaro diversi anni fa, una mattina di settembre, sconosciuto a tutti. Alto. Spalle larghe. Andamento molleggiato. Sorriso ironico. Occhiali. Una gran massa di riccioli neri. I quali, però, contro ogni legge fisica, invece di ricadere giù, come sarebbe stato giusto e normale, si spingevano verso il cielo, indubbio indizio metafisico, che, allora, tuttavia, nessuno seppe cogliere. Lo avresti detto un professore di ginnastica. Sempre in maniche di camicia, maglione annodato, scarpe da tennis, impermeabilone da maniaco sessuale al parco se piove. Di sicuro, qualcuno disse, per essere di San Donà, non il classico sandonatese arrogante e con la puzza sotto il naso. Ma chi fosse “davvero” Carlo Dariol, chi fosse l’uomo scuro, che con sguardo penetrante e voce stentorea avrebbe pungolato generazioni di studenti e docenti, facendoli sorridere col suo umorismo carognesco e fustigandoli con la sua lingua tagliente, beh, nessuno se l’immaginava. Quella volta, Dariol Carlo sembrava una meteora, uno studentello neo-laureato, un panettiere piovuto per caso tra le fatiscenti e polimorfe sedi del Liceo Statale “XXV Aprile” di Portogruaro. Oggi, al contrario, dopo che con tanta acqua il Lemene ha rinfrescato i vetusti ponti cittadini, una classica interrogazione retorica potrebbe chiedere: “Carlo Dariol, e chi non lo conosce?”. Di lui, si sa tutto. Si ripetono le cose, le leggende, i particolari, le morose, i per-sentito-dire, i nomi, le trovate, gli aspetti più reconditi dell’esistenza e della didattica. Tutte componenti, che concorrono alla costruzione immarcescibile e a tratti trionfalistica del Mito. L’auto-costruzione para-dannunziana contamina Vita-Arte e Matematica, fino ad innalzare un oraziano “monumentum”, duraturo attraverso un singolare cronotopo. Perché, se qualcosa rimane, e qualcosa alla fine rimane, è quel suo essere ricercatamente, ostentatamente, provocatoriamente “di Croce”, quel suo provenire da un industrioso e affettivo, leopardiano microcosmo bucolico, che arrivi fatalmente a negarne la filiazione sandonatese, rivelando con auto-ironica nonchalanche la propria arché contadina. Quel suo vizio di snocciolare freddure, che ne ha fatto prima l’èmulo, poi il sìmulo e infine il cùculo di Daniele Zamburlini, maestro di cazzate, decano per antonomasia, Numero Uno, colui che nel “XXV Aprile” insegna dalla notte dei tempi. E poi quel suo essere così diverso dal succitato Zambur, oltre che per l’arguzia del battutismo spinto, anche per un altro e non meno pregnante motivo. Per quel corollario femminile che sempre la vox populi tende ad attribuirgli. E qui si apre un capitolo a parte. Dariol e le donne. Là, dove il Zamburla fallisce, Dariol colpisce, lasciando il segno. Dariol trombeur des fémmes. Dariol irresistibile carissimo affascinante a volte ombroso gigione, l’asindeto s’impone, rima inclusa. Ebbene, lasciatevi pregare, niente di più inesatto. Carlo Dariol da Croce sempre castissimo e sempiternamente puro in fondo al cuore fu, è e sarà, nel concepire pensieri di qualsivoglia fatta. Lo dimostra la sua catulliana, innata fedeltà alla religione dell’Amore. Lo dimostra il suo ostinato, quasi insensato, pervicace continuare a trattare le donne (beh, non tutte…) come se fossero esseri razionali. Disperato esercizio, al quale il sullodato neo-cinico Zeta ha, invece, rinunciato da tempo immemore. E, poi, Carlo e la “sua” matematica. La sua genialità. Carlo e il Dariol-Pensiero. La sua weltanschauung, la sua visione guascona del mondo. Della serie “io so’ io e voi nun siete un cazzo”. Il suo “incidente-nel-quale-rischiò-la-vita”. E le poesie in dialetto, micidiale miscela di realismo, sublime gioco verbale e crassa comicità. E la grafomania. E l’erudizione. E il suo estro grafico. E il suo teatro un po’ all’antica, umile, fortemente curato, lavorato, artigianale, sempre morale. E quel suo essere, volutamente, al di là di ogni coerenza, Democristiano, nel senso letterale del termine. Democratico, quindi contrario alle storture massmediatiche, alle quali s’immola la deriva parlamentaristica delle italiche sorti all’alba del terzo millennio. E Cristiano, nel senso impegnato, sofferente, doloroso, ingenuo, forse a tratti patetico, che un donmilani o un davidmturoldo bene avrebbero conferito al termine. Un odio invincibile per il potere politico, quello subdolamente esercitato, che poi sfocia nel ridicolo, nella macchietta, puntualmente fustigata dall’aedo. Sì, perché dietro le spacconate, dietro le mille fighe, dietro il narcisismo, dietro tutto questo ed altro ancora c’è una malinconia imponderabile, ineffabile, incoercibile. Ed è con sulle spalle questo fardello d’insopprimibili, ossimorici controsensi che Egli viaggia verso i Cinquanta , rilasciando qua e là qualche baudelaireiano fiore, caduto nel fango di una piccola stazione addormentata di provincia. Tra queste sapide efflorescenze, senza dubbio, un ruolo cospicuo, nel più vasto quadro del vasto canzoniere darioliano, occupano le poesie dedicate al “XXV Aprile”. Ed ecco spuntare la graziosina Romàn, che si sposa, iper-curata, liftata, spesso in gonne corte, ma cade (giustamente) vittima delle lingue biforcute, di chi quanto e più di lei sa tagliare e cucire i panni addosso agli altri. Così come impietosamente fotografato risulta quello che di lei fu l’omologo, ormai trombato in pensione, “Giancarlo”, lapidato dal poeta in una superba chiusa, con la faccia di chi tenta l’ultima, fatua festa “per uscir dal suo superbo niente”. Addirittura magistrale, poi, la prova d’artista dedicata al Gran Zamburla, con quella sua barba candida, l’aria trita un poco stanca, sorta di elfo o di veglio “molto saggio, furbo e sveglio, /con giubbin gilè cappello… /ché lo stile è sempre quello”. Uno che si parla addosso e si ripete, uno che “di citarsi ha sempre sete”, ma soprattutto uno che ha il ‘vizietto’ di far la corte (non cagato) alle maestrine supplenti di nomina annuale (“bionda o nera tutt’è uguale”). Anche se poi al bar le studia tutte per non pagare e “ad ogni fine d’anno, / senza tema e senza danno, / organizza lui gran pranzi / di sardine e buoni avanzi /e alla fine del cenone /lui pretende l’attenzione, /con sorrisi a destra e a manca / lui pretende carta bianca, /legge, pausa e si diverte, /non disprezza citazione… di sé stesso, il Zamburlone”. Nell’attonito finale, l’Autore ritaglia per sé, di fronte all’innocua ma petulante follia zamburliniana, un ruolo da osservatore stranito, quasi atterrito da cotanta inutilità. Capolavoro mimetico. Molto bella, nondimeno, la doppia versione dialetto/lingua di “ ‘A frana coppia”, coppia sostanzialmente sfigata, ma supponente, auto-referenziale; mentre tutto sommato felici, per quanto scettici, sono i versi di “Amuri estorti”, nei quali Dariol, “dal mazzo delle sue cazzate lente”, estrae una sburrata d’esili versi consolatori, come li avrebbe definiti il gobbo e orbo recanatese. E che dire di quella, in cui una misteriosa donna osa resistere al poeta, lasciandolo inane? Del tutto particolare, poi, la lunga lirica dedicata al pensionamento del Quacqua, che, pubblicamente letta in convivio, suscitò la piccata giovenaliana “indignatio” di talune siorette, perché ricca di doppisensi erotici e di pseudo-offese per il preside e per tutti, mentre in realtà ambiva solo ad essere quello che era, cioè sincera e melanconica. (In realtà, la prima versione, che pochi possono vantarsi d’aver letto, era di gran lunga più scandalosa). Poi c’è quella piena di sentimento per l’alunna-che-gli-volle-davvero-bene, diciamo il parolone va’, che lo amò, ricambiata, in quell’aura sottile ed incerta, che separa la pedagogia dall’amicizia e dall’amore, così come un po’ più recitativa e scherzosa, ma altrettanto sentimentale è quella dedicata all’allieva Cippi, dipinta come una geisha orientale. E meritano, ugualmente, un cenno quelle dedicata a Costella o quella dell’insegnante d’Italiano che si sproloquia addosso con gli avverbi, e fondamentalmente, e praticamente, e veramente. Formidabile, poi, l’auto-ritratto burbero e intrigante dell’artista allo specchio. Bellissima quella in cui “il Migliore”, cioè Pierandrea Bon, radicatissimo alla postazione web che da lui prende il nome in sala insegnanti, a un certo punto si sente “chiamato” dal computer. Alcune sono poesie rabbiose e francamente tri-isti, cariche di solitudine, mentre il poeta antifrastico torna in auge descrivendo una presuntuosa rompicoglioni, che pensa di conoscere sempre una carta più del libro (si dice così, no?) e si atteggia a maestra di pensiero. Trovo personalmente molto eleganti e affascinanti le liriche dedicate alle variazioni sul tema carducc(pascol)iano del bove, nelle quali si trova tutto il gusto di giocoliere della parola, basti pensare a “Beato chi ti vede, adesso, bove, / che le stalle e l’odore di büazza / sono sparite ovunque”. Mentre nella classicheggiante “Loggia dei cari addii” (“A te per prima ch’obbligata Alcesti / per amor del tu’amor mollasti vetta, / a te per prima l’omaggio di questi / addii e dolci ricordi spetta, / o Pierina, che prima m’accogliesti”) Dariol si supera in versi dedicati a Pierina a Marina e a Rosa, tre donne (beh, non proprio tutt’e tre donne, diciamo una donna, una serpe e una nana) pensionande, così come la quarta, la mite Emilia, che di lì a poco sarebbe davvero, più del poeta ironica la sorte, morta. Irresistibile, invece, la descrizione del fastidio della pettoruta Stanchina per gli uomini che in bagno fanno puzza. Micidiale la lirica contro le donne-che-pretendono-di-fare-il-filosofo e non capiscono un emerito fallo. E poi ancora una miriade di personaggi strani, egoisti, egocentrici, maleducati, scorreggioni, gaffeurs con le mani nelle braghe, con gli occhi stralunati, il sorriso ebete, il cuore arido. Il mondo di Carlo è un circo rutilante di malinconici e licenziosi zombi dai colori pastello, come una terra bruciata di Cesca o un peto andato in fumo. Come un regalo. Grazie, Carlo.