Edizioni del Cubo


Dódese storie in Cróse
Istantanee lungo la storia

“... dodici momenti, dodici ingrandimenti lungo lo sviluppo della storia di Croce ...”

 1 - L’oste Piero (1350)
 2 - Zuane Campagna publico concubino (1579)
 3 - Un matrimonio nullo (1670)
 4 - La notabile rotta (1724)
 5 - Rapporto completo (1778)
 6 - Ma chi me l’ha fatto fare (1855)
 7 - La canzone di Toti dal Monte (1930)
 8 - Nane Moro torna dalla guerra (1943)
 9 - Bàciali (1945)
10 - La “Disputa” (1964)
11 - La mia alluvione (1966)
     - La notte che arrivarono le camionette (1979)
12 - Tre fratelli (1987)

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Dalla postfazione

Questo libro è un debito pagato al pubblico del paese che da tanti anni viene a teatro ad ascoltare le mie storie. Questa volta ho parlato di loro, di tutti. Le dodici (o tredici?) storie qui raccolte sono il tentativo di ricostruire le verità che i documenti non possono trattenere: quelle fornite dalle intenzioni, dalle opinioni, dalle possibilità; le verità dell’anima insomma, che essendo legate alle percezioni individuali, sono di norma tralasciate dalla storia ufficiale.
Si tratta di dodici (o tredici?) storie “in crose”, apparentemente buttate là, e allo stesso tempo “in Crose”, accomunate cioè dall’essere capitate tutte nel paese dell’autore.
La prima impressione dovrebbe subito essere fugata da una data accanto ad ogni titolo, la quale rivela una distribuzione cronologica, dapprima molto larga, più stretta nel Novecento, quasi a voler illustrare il concetto (accademico eppur ovvio) di progressiva “accelerazione della Storia”, mutuato dalla sempre più rapida mutevolezza degli accadimenti; dall’altro si tratta di dodici (o tredici?) storie effettivamente cavate come fotogrammi o piccole sequenze dalla pellicola della storia del paese; o, per usare una metafora meno moderna, di stazioni di posta e di riposo lungo la via francigena laico-religiosa-(e di nuovo laica) che porta alla modernità.
Le prime storie, scandite sulla successione degli antichi parroci, mirano a trasformarne i puri nomi in figure amichevoli, meritevoli di entrar a pieno titolo nella memoria paesana collettiva. Sono storie caratterizzate dal gusto per la citazione e per il rimando implicito, sempre dissimulato; a volte sono pezzi di bravura in quanto costruite su di un semplice accenno (Un matrimonio nullo) o ricostruite su appunti frammentari (Rapporto completo) o sulla interpretazione di oscuri passi in un latino ecclesiastico criptato dalle notazioni brachigrafiche, o su quella d’un volgare semplicemente mal scritto (Zuane Campagna); decifrazione sempre difficile, a volte impossibile (per l’autore, certo) come accade per le ultime righe dei documenti del processo a Zuane, scritte da un segretario quasi deliberatamente cacografico che forse non voleva che si conoscesse il finale della storia e dove l’autore (del libro) è stato tentato più volte di far scendere a Croce un disco volante con gli alieni per rapire Zuane e Filippa e portarli in uno spazio-tempo pre-Concilio di Trento dove e quando i concubini e i poligami erano tanti e nessuno se n’occupava.
Le ultime sono storie costruite sul racconto popolare che si eleva a paradigma e quindi a letteratura. Tutte mostrano che la storia è fatta dai piccoli, da La canzone di Toti Dal Monte, dove le riflessioni della cantante sul matrimonio della popolana gettano nuova luce sulle sue vicende personali, a Il ritorno di Nane Moro dalla guerra, dove l’epopea nazionale dell’8 settembre sembra naturalmente concludersi tra le strade di casa, da Bàciali, in cui si affida non ai Conti Gradenigo ma ad un’altra famiglia di… Conte (e basta) il destino d’una saga familiare, al Luigi che trema al pensiero de La “Disputa” , alla donna, più triste che avida, che reclama una coperta in più per affrontare la disgrazia ne La mia alluvione. A tutti loro è dedicato questo libro.
L’ultimo, Tre fratelli, è un racconto finale e di morte, che sembrerebbe togliere spazio ad ogni ulteriore discorso e speranza, se non fosse primo di tutti il pensiero della morte a conferire dignità alle scelte della vita.

E veniamo al linguaggio. La scelta di un frasario popolare, calcato sul parlato ma raffinato dalla necessità di essere chiaro, è sottolineata e negata al tempo stesso dalle continue sortite nel mondo dell’erudizione e del linguaggio di curia, da cui l’autore, armato di clava iconoclasta contro la versione ufficiale, torna coi fascicoli che il gusto per lo sberleffo gli ha consigliato di trattenere, attitudine che fa di questi racconti un gioco mistificatore e soavemente serio. Se dodici (o tredici?) storie sono state scelte, altre sono state messe da parte: ad esempio quella del gastaldo che all’inizio del ’500 scrive preoccupato a Marco Cornaro per gli effetti dell’alluvione; o quella della vocazione dei fratelli Paludetto senza un soldo per studiar da preti; quella dei quasi verghiani scariolanti delle bonifiche e quella dei “disobbedienti” che “occuparono” le vecchie scuole elementari negli anni Ottanta; e poi, ancora, quella del premio nazionale alla maestra Berton, unica del Veneto, nel 1930, e quella, spassosa, dei SessanT.I.T.tini, rivoluzionari de noantri. Sono tutti racconti che avrebbero meritato ugualmente di essere inseriti in questa raccolta e che finiranno disseminati (vae lectoribus!) nella trilogia della storia del paese o in “Altri racconti dal paese dell’Invenzione”
Un cenno infine va riservato a quello che, non numerato, è invece presente, il racconto che precede il numero 12: al di là delle interpretazioni scaramantiche da consegnare agli amanti della numerologia, si tratta di un metaracconto, ossia della spiegazione per cui il racconto in oggetto non fu scritto, e che divenne racconto per intuizione di ‘Gus’, al cui gusto per il paradosso l’autore è sovente debitore.
Carlo Dariol