Storia di una passione
Durante il terzo anno di università decisi che gli
studi di matematica avevano assorbito anche troppo del mio tempo. La bella
camera singola (bella in quanto singola) che l’anno prima (per un insieme
fortunato di coincidenze raccontate in un altro capitolo della mia vita) l’E.S.U.
mi aveva assegnato a Monte Cengio, mi era stata tolta: perché, seppure avessi
superato tutti gli esami del secondo anno di matematica, risultavo appartenente alla terza
fascia, quella dei ricchi – essendo figlio di un dipendente comunale
– e bisognava prima accontentare i “poveri”
(spesso figli di imprenditori e di liberi professionisti più abili di mio padre
nelle loro denunce dei redditi); in seconda assegnazione mi
era stato offerto un posto resosi vacante al
Luzzatto, uno degli istituti più squallidi e casinari dell’intero circuito
dell’E.S.U., in camera tripla con due stranieri che durante i fine settimana
avrebbero saputo benissimo a chi prestare il mio letto. Decisi che ne
avevo abbastanza di Padova e dell’E.S.U. e che avrei fatto il pendolare.
Mia madre non era d’accordo con la mia scelta perché sapeva che a fare il pendolare da Croce a
Padova si perde un sacco di tempo: era rimasta scottata dall’esperienza del
mio fratellino maggiore
che durante il suo primo anno di università da pendolare aveva
dato un solo esame, e per quel fatto era rimasta così triste che sembrava che
quell’anno l’avesse
perso lei. Ma io, avendo completato i laboratori e gli otto esami del biennio, potevo ben dire,
e credere – lo dicevano tutti quelli che avevano qualche anno più
di me e che studiavano matematica in quegli anni –, che il grosso era fatto.
Fare il pendolare mi avrebbe permesso di dedicarmi alle attività con desinenza in “-ura”
(lettura, pittura, scrittura...)
trascurate per due anni; anzi, decisi che ne avrei intraprese di nuove, come
suonura la tromba e, dato il
successo avuto come calciatore della squadra di matematica, addirittura tornura a giocare a calcio
con la squadra del paese, tanto più che il Croce quell’anno era
stato promosso in II Categoria.
Un incontro casuale. Ma determinante
Fu la mia amica Cristina, incontrata casualmente un giorno pendolando in treno, a dirmi che la sua amica
Giovanna faceva parte di una compagnia teatrale in cerca di attori maschi.
Teatro? Forse avevo sempre sognato di far teatro... Ma non ne ero sicuro.
Telefonai
al numero che Cristina mi aveva dato e mi presentai a Musile, nell’aula magna
della Scuola Media. Giovanna non c’era. C’erano altri quattro
sconosciuti, uno dei quali mi consegnò un copione delle “Nozze di Figaro” e incominciammo a
leggerlo: dirigeva le cose una certa Alberta che mi corresse i primi accenti.
Dopo qualche settimana l’Alberta si ritirò e assunse la guida del gruppo
Walter (Figaro).
Continuammo
le prove per un anno, dapprima nell’aula magna di Musile, poi nella sala
teatrale di Mussetta, poi nell’Oratorio di Torre di Mosto, e qualche
volta ancora in posti di fortuna che non giova nominare.
Dapprima
mi era stata data la parte di Basilio, un ruolo minore, anzi men che minore, ma che a me
bastava, per cominciare; poi, dato che il
regista faticava a trovare un Cherubino, fui provato per due o tre volte
anche in quella parte a dispetto della mia voce da basso
e del mio fisico da corazziere; alla fine mi furono assegnate le secondarie parti di Bartolo
e di Bridgeoison,
ribattezzato, chissà perché, Don Curzio: due ruoli di vecchio babbione, cui
evidentemente la mia natura doveva adattarsi senza grossa fatica a parere del
regista, che pretendeva che ognuno dicesse ogni battuta esattamente come la
diceva lui; non ci riuscivo, mi sembrava eccessivo il suo modo di intendere le
battute, troppo comico, troppo falso, donde ricavai la mia impressione di esser soprattutto un
attore tragico... Si capisce bene che ero negato per il teatro.
Inventarsi regista
La
strada più breve per ottenere una parte che mi piacesse era di autopromuovermi
regista: in fondo, dire agli altri quello che dovevano fare - lo vedevo fare a
Walter - mi
sembrava facile; e in più potevo assegnarmi la parte che mi piaceva; e poiché
il mio sogno era di portare un giorno in scena l’Amleto (che mandava Ofelia in convento;
apostrofe che avrei voluto rivolgere alla mia ex morosa)
chiamai un po’ di amici per mettere in piedi una compagnia e
tentare di rappresentare l’immane tragedia a Croce.
Quando la
Lisa Davanzo, poetessa della cultura popolare e indiscussa icona teatrale del
paese, venne a sapere che avevo cominciato le prove “dell’Amleto!”
volle leggere la riduzione che ne avevo
fatto: il suo desiderio si spiegava col fatto che tutto ciò che di teatrale era
stato fatto in paese da quarant’anni l’aveva fatto lei, e
perciò si sentiva naturaliter investita della facoltà di supervisione sul
lavoro di chicchessia: in tutto corresse qualche virgola del mio testo, tolse qualche
incisa… un lavoro perfettamente inutile, ma che aveva la funzione di chiarire
che era lei la signora del teatro, e che grazie alla sua benedizione potevo
andare avanti.
Attori erano i miei amici, e gli amici dei miei amici: Gus nella parte di Orazio, Massimiliano
nella parte di Bernardo, Massimo in quella di Marcello, Michele come Claudio, Lino
come Polonio (che pronunciò sempre l’esclamazione «È questo che l’ha fatto
impazzire…» come una domanda: «È questo che l’ha fatto
impazzire?», cosa alla quale, e al cui ricordo, era ed è impossibile non
ridere); e ultima ma non ultima Martina come Ofelia. Per me avevo scelto
ovviamente la parte di Amleto e mi sarebbe piaciuto davvero sfruttare
l’occasione del teatro per dichiararmi a Ofelia-Martina, ma lei non prese
l’impegno sul serio e abbandonò dopo la prima prova, cosicché la sostituimmo
con Chiara. Il progetto proseguì per qualche mese senza approdare a
nulla. Ricordo che Erika, una delle mie allieve del San Luigi (nel frattempo
avevo incominciato
a insegnare) volle
venire a vedere qualche prova (era interessata al teatro e un poco anche a me),
e m’invitò alla fine dell’estate a vedere uno spettacolo di un certo Alessandro
Gasmann, all’Astra. Qualche giorno dopo la
ritrovai protagonista nella parte di Susanna nelle
“nozze di Figaro”. Era l’ennesima sostituzione resasi necessaria in seguito all’ennesima defezione.
Il brodo di Figaro si stava allungando in maniera disperante, costretti com’eravamo a
sostituire attori ogni mese, e in autunno erano previsti la stretta finale
e il debutto. Io continuavo a non ricavare molta soddisfazione dagli incontri di prove,
un po’ perché recitavo
poco e mi sembrava di non imparare nulla, un po’ perché il gruppo mi
sembrava privo di anima, e fuori del teatro non sarebbe mai diventato un
gruppo di amici. Alle prove cercavo di abolire la noia dei tempi morti portandomi dietro le
bozze della tesi (un tentativo di romanzo su Cantor) col quale distraevo le
attrici liceali... infastidendo infastidivo il regista.
Finalmente
andammo in scena all’Astra il 25 ottobre 1991. Sul manifesto comparve anche il
nome di Gioìa, il professore che curava il laboratorio teatrale del Liceo
Scientifico di San Donà, e che davvero non capivo cosa c’entrasse
dato che in un anno abbondante di prove non l’avevo mai visto; forse aveva il merito di averci fatto
ottenere l’uso del Teatro Astra.
Andò come andò, credo bene, non sbagliai le mie battute ma fui certamente incolore.
Venne in camerino la mia ex morosa a farmi
i complimenti, venne la Cristina a farmi i complimenti (a lei dovevo il fatto di
essere lì quella sera) e vennero altri a farmi i complimenti: erano complimenti di
rito, del tutto gratuiti e falsi dato che non avevo reso memorabili né la
parte di Bartolo il dottore, né quella di Don Curzio il giudice; ma soprattutto mi tornarono
falsi i complimenti della mia ex morosa, perché erano
uguali ai complimenti che
sempre si rivolgono gli artisti tra di loro per il fatto di ‘essere’
artisti (era lei l’artista per
definizione tra noi due, io avevo solo cercato di seguirla sul terreno di
un’arte meno assorbente della musica). Sulla faccenda degli artisti
che cercano la comprensione e gli applausi di
altri artisti (cosa che a lei era riuscita più volte) si era sgretolata la nostra
storia. Va in convento, Ofelia!
Nel
luglio dell’anno successivo Walter mi chiamò per una
replica di alcuni atti unici di Cechov che già aveva portato in scena con
gli studenti del “Galilei”; feci parte del cast de “La domanda di
matrimonio” con la parte mal rimaneggiata di Cubukov, padre di Natalia.
Per quanto riguardava la mia attività teatrale in paese,
avevo messo da parte l’Amleto e scelto una commedia con solo sette
attori, “La scuola delle mogli”; ma anche questa procedette a lungo e senza
risultati. Certamente m’infastidì in quel periodo l’allestimento delle “Nozze di Figaro”
da parte di Walter con Zelio nelle mie due
parti. Il quale son sicuro che fece meglio, ma mica lo andai a vedere...
I Rusteghi
Nel settembre del ’94 alcune mamme del paese - che
intendevano raccogliere fondi per l’asilo dei figli - mi chiesero di
partecipare all’allestimento dei “Rusteghi”; non ero propriamente un genitore
e non ho mai saputo se
fui chiamato per completare un cast difficile da completare o perché si sapeva
che avevo già tentato di fare qualcosa in paese
(Amleto, La scuola delle mogli) o perché si sapeva che avevo fatto
qualcosa di teatro con la MasterTalia di San Donà.
Quando ci trovammo la prima
volta eravamo uno in più del necessario, e fu subito chiaro che nessuno avrebbe
voluto fare un passo
indietro;
«Va ben, allora mi fae el regista» disse
Berto, il più conciliante del gruppo. Le prove andarono avanti tutto
l’inverno, molto spesso a casa del Cocco (sior Maurizio) e della Clara (siora Felice),
i quali, avendo tre bambini non potevano lasciarli a casa da soli e piuttosto
che uscire preferivano
accoglierci tutti e otto in cucina da loro, dove del resto faceva più caldo che nel salone
dell’oratorio.
Le
indicazioni di regia di Berto consistevano soprattutto nel farci fare
silenzio mentre guardavamo la videocassetta dei “Rusteghi” di Cesco Baseggio
per cercare di copiare il meglio possibile, anzi, pedissequamente, le gag, i
movimenti e le intonazioni dei professionisti. Dopo un’ora di prove
passavamo alle libagioni. Ogni volta qualcuno portava qualcosa, la Clara e il
Cocco offrivano bibite e caffè.
Quanto a migliorare... beh, avremmo
potuto continuare le prove all’infinito: non eravamo mai pronti e con
quei ritmi e quell’impegno non lo saremmo stati mai; ma fortunatamente fummo
costretti ad “affrettare” l’andata in scena perché Clara era rimasta
incinta (del Cocco).
Scegliemmo per la compagnia l’azzeccato nome di “Compagnia Instabile”: “I
Rusteghi” furono portati in scena il 1° aprile 1995, replicati il sabato
successivo e poi altre volte nel circondario: a Losson, dove persi il
portachiavi che mi aveva regalato per la laurea la Michela
(che poi morì il giorno prima della sua laurea), a Musile,
invitati dal dottor Dalla Pozza che cercava fondi per la sua Casa-Famiglia, e
dove Berto fu costretto a togliere tutte le musiche per l’arrivo degli ispettori
della S.I.A.E; e infine il 5 maggio a San Donà, nella palestra del San Luigi,
spettacolo organizzato da me.
Croce
si sorprese di avere una Compagnia teatrale. Anche la Lella (Lucieta), alla fine
delle repliche si scoprì incinta (di suo marito).
Nel
frattempo accrebbi la mia esperienza gestendo il laboratorio
teatrale al “Liceo S. Luigi” di San Donà di Piave in compagnia delle colleghe
di musica e di educazione fisica. Nel dicembre ’94 portammo in scena
il musical “Il quarto re”, e l’anno dopo il musical “Liberi
liberi” (dicembre 1995).
Intanto avevo presentato Gus a Walter e Walter lo cooptò tra i suoi attori e
insieme continuammo a partecipare
agli allestimenti della MasterTalia, che nel ’96 portò in scena la sua commedia più ambiziosa: “Rumori fuori scena”.
In occasione del cinquantenario del San Luigi (1997) la scuola decise di fare qualcosa di grande,
cosicché decidemmo di allestire per la primavera (9 aprile 1997), al “Da Vinci”
di San Donà, “Aggiungi un posto a tavola”, di Garinei e Giovannini, musiche
curate dall’insegnante di musica (mia cognata) e balletti e coreografie curati dalla
prof di educazione fisica. Alla prova generale al Da Vinci la Madre Superiora si offese per
una battuta della prostituta (l’Electra) che alla battuta della
Silvietta-Clementina «Ma io sono vergine!» rispondeva «Guarirai!!». Ovviamente la superiora non
disse che era quella la battuta che l’aveva scandalizzata, ma ci attaccò dicendo che era
insopportabile sentire la voce di Dio che rimproverava il prete protagonista; e nella giornata d’apertura della “Settimana del San Luigi” evitò di menzionare
che il mercoledì ci sarebbe stato lo spettacolo degli studenti.
Anche il professor Gioìa del Liceo Scientifico quell’anno portò
in scena “Aggiungi un posto a tavola”, ma a dispetto della sua maggiore dovizia di
mezzi e partecipazioni, sicuramente per fantasia e allegria l’allestimento del
San Luigi diede dei punti a quello del Galilei.
L’inizio dello spettacolo fu
replicato il 4 luglio 1997 nel parco di Villa Ca’ Zorzi a Noventa.
Non
adoravo in realtà i musical che mi sembravano soprattutto una giustapposizione
di quadri. Decisi
pertanto di sperimentarmi da solo come regista teatrale portando in scena lo
spettacolo che non ero riuscito a portare a termine in paese: “La
scuola delle mogli” (24 gennaio 1998).
Erika, che aveva la lunghissima parte di Arnolfo, saltò per errore una battuta
che costrinse la Silvietta a tagliare la esilarante scena del nastro.
Silvietta, a sipario chiuso, s’impuntò di voler tornare indietro e pertanto,
decisione presa in due secondi, riaprimmo il sipario appunto per ripartire da
qualche battuta precedente e poter offrire al pubblico uno dei pezzi forti della
commedia.
In quella decisione istantanea e felice capii che potevo continuare a fare il regista.
L’anno dopo scelsi di portare in scena “Liolà”, una commedia che aveva ruoli quasi tutti
femminili, l’ideale per una scuola di femmine. Debuttò il 7 maggio 1999 e fu
replicata al Da Vinci qualche
settimana dopo.
Fu l’ultima cosa messa in scena con gli allievi del “San Luigi”. L’anno
successivo cominciò a girare la notizia che la
scuola stava naufragando nei debiti e la nuova superiora era venuta appunto a
dare il colpo di
grazia. Non avevo voglia di pensare al teatro. Oltretutto ero diviso tra due scuole per un numero di 26 ore
d’insegnamento, 2 oltre il massimo legale.
Le smanie per la villeggiatura
Con Gus, che frattanto dentro la MasterTalia giocava un ruolo
molto più significativo del mio, decidemmo di recuperare
e portare avanti l’esperienza teatrale in paese: Goldoni
ci aveva garantito un po’ di successo, la mia amica Silvia mi aveva parlato bene
di uno spettacolo che aveva visto a Treviso (Le smanie per la villeggiatura), e Walter, cui avevamo raccontato della nostra precedente esperienza paesana guidati
dall’aldilà da Cesco Baseggio, non aveva perso occasione di denigrare la nostra scelta
(Walter denigrava tutte le scelte artistiche che non aveva fatto lui) e di
dirci che la lettura comica di Goldoni era superata, e che esisteva invece una
dimensione più tragica. Mettendo tutte queste cose insieme, sentendomi più
portato per le cose tragiche che per quelle comiche, decisi che avrei allestito
“Le smanie” così come avrei allestito “Amleto”, se ne fossi stato
capace. Ma i vecchi attori della Compagnia Instabile mi dissuasero osservando che avrebbero fatto molta fatica a
recitare in italiano. Tuttavia, ormai persuaso dentro
di me a rappresentare “Le smanie”,
decisi di tradurle in veneziano, nel veneziano di Goldoni che credevo di
avere in orecchio dopo i tanti mesi di prove dei Rusteghi. Gus mi diede una mano
nella traduzione e dopo l’estate riconvocai i vecchi attori dei “Rusteghi”:
Gus (Ferdinando, lo Scrocco), Gabriele (Sior Filippo), Berto (che metteva la
casa, il servitore Paolo), Gioni (Guglielmo), il Cocco (Fulgenzio, il
mediatore), la Clara (Giacinta), la Tiziana (Brigida); a loro si aggiunse la Bertilla
(Vittoria) che aveva recitato la Cenciosa nel “Forza, venite gente” di mia
cognata, che aveva continuato coi musical.
M’ero riservato la parte di Lunardo, intenzionato a darne una lettura completamente
tragica. Ma dopo un mese di prove fallimentari nella taverna di Berto,
concludemmo che era il caso di lasciar perdere. Il clima positivo della prima
esperienza era andato a farsi benedire: le donne del gruppo, ormai vere
attrici, non facevano che litigare e rinfacciarsi inadempienze… e il tentativo
terminò con un nulla di fatto.
Gus ed io riprendemmo il tentativo l’anno successivo con tutt’altra gente:
con Antonio, che avevamo incontrato nella
preparazione del musical “Il sogno di Giuseppe” di mia cognata (Croce era
diventato ormai un paese ad alto tasso artistico), il quale
aveva chiamato il suo amico Walter, il quale aveva chiamato la Sandie. Io nel
frattempo avevo chiamato la Laura, Daniele e Cocco che
avrebbe partecipato “in quanto unico attore di esperienza”. Cercai invano di
agganciare Gabriele per la parte di Filippo, perfetta per lui, ma era troppo
impegnato. Affidai così la parte di Lunardo a Walter e tenni quella di Filippo
per me. Furono coinvolti anche Caio e la Roberta nelle parti dei due servitori.
A marzo, quando le prove procedevano ancora zoppicando, Gabriele si dichiarò
finalmente disponibile, ed io fui felice di assegnargli la parte che era
evidentemente sua, rammaricato del fatto che non potevo però recuperare la mia;
mi dedicai quindi solamente alla regia e
lavorammo come pazzi per far imparare in due mesi a Gabriele la lunga parte di
Filippo. La compagnia si chiamò “Èlieta Dipresentare” (nome scovato da
Gus) e il 19 maggio 2001 debuttammo a Croce, replicando il giorno dopo. La
Roberta nel frattempo era rimasta incinta (rinnovando la tradizione della
pericolosità insita nel rappresentare Goldoni, anziché nell’usarli) e, per ordine del
medico, dovette stare a riposo e abbandonare ogni impegno. Chiamammo la
Silvietta M. che fu bravissima ad imparare la parte in venti giorni: il 9
giugno replicammo al “Da Vinci”, in luglio a Meolo, in uno spazio
davvero infame, ma fu la replica meglio riuscita. Il professor Ernesto Gallo
fece uscire anche una recensione sul Gazzettino in cui, pavoneggiandosi a mo’
di critico-di-teatro, elogiava soprattutto l’interpretazione delle femmine,
dimenticando che i dilettanti rappresentano sempre se stessi e che le donne recitano
anche quando non recitano.
Ambiguo veneziano
Sull’onda dell’entusiasmo delle
“Smanie” mi azzardai a voler portare in scena “Ambiguo Veneziano”,
una commedia nata da un’idea di Alessandro Striuli e da entrambi abbozzata nel
suo sviluppo alcuni anni prima. Nell’estate del 2001 buttai giù la gran parte
dei dialoghi in dialetto veneziano (un dialetto che ormai era una mia quarta lingua)
che poi discussi e limai con Ale. Fu un problema relativo trovare il
gran numero di attori necessari (dapprima venticinque, poi pian piano ridotti a
sedici), perché il successo delle “Smanie” aveva spinto la Tiziana, la
Clara e la Lella a rifarsi vive e a dichiararsi disponibili per un eventuale
nuovo progetto. Non so se condividessero l’idea di recitare un testo mio ma
era per loro l’occasione di tornare a far teatro. Al matrimonio di Rupert, Alessandro convinse Umberto e Giorgio a unirsi
all’esperimento. La delusione maggiore fu la defezione di Gus, che fin
dall’inizio dimostrò di non credere al progetto, anche perché in quel periodo
lavorava molto con la “MasterTalia”. Gus sarebbe stato un
Tanio perfetto ed io un convincente Erasmo. Ancora una volta rinunciai al ruolo
che ritenevo più congeniale per me.
Un’anteprima del I atto (la
scena del bordello) rappresentata all’Astra in occasione di uno spettacolo di
beneficenza riscosse un notevole successo. Questo indusse me ed Alessandro
ad accelerare il debutto accettando la data proposta dall’assessore
sandonatese. Il 14 dicembre 2001 al “Da Vinci” di San Donà andò
quindi in scena “Ambiguo
Veneziano”, di Dariol e Striuli.
La
sera delle prove generali la peggior nevicata degli ultimi anni ci impedì di
provare, e Dio sa se ne avevamo bisogno. Lo spettacolo durò due ore e un
quarto, i tempi morti per la sistemazione delle scenografia furono tanti, la
mancanza di sincronizzazione deprecabile. Eppure da più di qualcuno lo
spettacolo fu apprezzato. Nel marzo 2002
lo spettacolo fu replicato al Teatro “Elios” di Scorzè, con il testo revisionato e ridotto
di una mezz’ora. Accadde che, per un anticipo d’una battuta da parte di
Giorgio, andò saltata quasi interamente la scena del funerale, cosa
che impedì a Umberto, costretto a recitare il suo discorso funebre
dalla galleria come da un pulpito di cattedrale, ad assistere impotente all’errore che si stava consumando...
e lo fece arrabbiare
ferocemente con me.
Sandie in seguito mi mise in contatto con il M° Mauro Perissinotto, il quale
intendeva far animare dalla Compagnia le scene dell’opera lirica “Cavalleria
Rusticana” di Mascagni, che lui avrebbe diretto, insieme con
il coro del M° Zaramella. A me fu affidata la regia dello spettacolo.
Facemmo in tutto due prove con il coro, che suscitarono le perplessità degli
ordinati e puntuali coristi (“Ma come feo a lavorar co quel là?!”),
una coi solisti ed una prova generale, interrotta da una signora che si affacciò
urlando infastidita al balcone, “che lei il giorno dopo doveva andare a
lavorare!”, proprio come nella
pubblicità delle pagine Gialle di qualche anno fa. Per la prima volta mi trovai
a lavorare con professionisti e fu una sensazione piacevole discutere con loro,
che facevano i cantanti di professione, entrate uscite e movimenti per rendere
la loro parte recitata il più espressiva possibile e la storia narrata il più
consistente possibile.
La
prima del 28 giugno 2002 fu interrotta per la pioggia, ma la replica della
domenica fu un successo, e molti dei vecchietti del coro, che avevano nutrito
legittime perplessità sulla mia capacità di concepire lo spettacolo nella sua
totalità, vennero a farmi i complimenti. Un successo davvero con poca fatica, considerato che i miei
attori non dovevano dire nulla ma solo camminare, bere e far finta di spaventarsi.
Nell’anno
scolastico 2002/03 mi fu affidata la conduzione del laboratorio teatrale del
Liceo “Galilei” di San Donà di Piave, che si concluse il 27 maggio 2003
con la rappresentazione de “Il codice di Perelà”, di Palazzeschi. Fu
un’esperienza imbarazzante in quanto venivo chiamato come docente esperto.
Credo che andò bene.
Nella medesima stagione la mia Elieta Dipresentare portò in scena “Cercasi
Erede”, di Luciano Lunghi (29 marzo e 12 aprile a Croce, 14 giugno a
Fossalta e 24 marzo 2004 al teatro Elios di Scorzè). Il
testo mi era stato fornito due anni prima da Gigi, il marito di mia cugina
Graziella, che l’aveva portato in scena a Milano con la sua compagnia e aveva avuto un
successo enorme; avevo invitato Gus a leggerlo e lui, poco convinto, aveva perso
il copione. Avevo dovuto farmelo rimandare da Gigi.
Alla
replica del 12 giugno in piazza a Fossalta i miei cugini milanesi erano in prima fila con tutta la famiglia:
non li avevo avvisati ma nel pomeriggio, casualmente in giro per Fossalta,
erano passati davanti a una locandina dello spettacolo.
Il 27 marzo 2004 all’Elios di
Scorzè, nell’ambito della rassegna organizzata dal N.O.I. lo spettacolo fu
presentato sotto il titolo di 4 nipoti e un maggiordomo.
Andò bene: il pubblico, tutto “foresto”, rise fin da subito e fu tutto più facile. Qualche giorno
dopo, in un autobus di linea una vecchietta telefonò tutta eccitata ad
un’amica: «Indovina co chi che son drio ’ndar casa! Indovina chi ch’é
drio guidar! Zio Michele!!!» Michele, autista di autobus nella vita, nello spettacolo faceva (benissimo) la
parte dello zio paralitico e rincitrullito. Forse la vecchietta non era
eccitata, ma impaurita.
Nell’ultima
replica, il 9 aprile al “Da Vinci” a San Donà, lo spettacolo filò
via liscio, ma non c’era molta gente (150 persone) perché la
pubblicità era fallita: i manifesti, appesi dieci giorni prima,
erano stati strappati già la prima sera da un’antropomorfica tempesta di pioggia
rovesciatasi su San Donà.
Alla fine dello spettacolo Gus si arrabbiò, dicendo che non ci
avevamo messo abbastanza impegno per quella replica; credo stesse cercando una scusa per
svincolarsi definitivamente da un gruppo che gli stava stretto.
16 aprile 2004 al “Da Vinci” a San Donà i ragazzi del Liceo portarono in
scena “La
visita della vecchia signora”, di F. Durrenmatt. Protagonista era Dario
Baldo, che l’anno prima si era distinto nel Perelà. Dario era un estroso di
prima categoria e veniva saltuariamente alle prove e la settimana prima del
debutto ancora non
sapeva la parte. Fece benissimo. Ma fu come giocare al casinò.
Il 3 luglio del 2004
l’Elieta Dipresentare fornì i figuranti per “Il
Trovatore”, nell’Opera in Piazza (Indipendenza) organizzata dal
“Circolo Segattini” e diretta dal M° Perissinotto. Non ricevetti in
verità molte indicazioni dal M° Perissinotto, il quale mi disse solo di arrangiarmi
direttamente con costumisti e scenografi lasciando da parte i vecchietti del
Segattini. Mi venne il ghiribizzo di spiegar al pubblico l’opera attraverso la proiezione di una
serie di didascalie relative alle parti più difficili da seguire, telefonai in Comune
per sondare la possibilità di utilizzare uno schermo e un proiettore,
mi fu passato un funzionario irritato per tutto l’aggravio di lavoro e di
impegni che l’opera in piazza gli causava; ed egli, identificandomi come uno del
Circolo Segattini, mi trattò come il figlio della schifosa
e mi parò davanti una grande Casa Di no: niente proiettore disponibile, niente appendere
un lenzuolo bianco sulla parete del Municipio, niente di tutto... tutto era difficile. Anzi, tutto
era impossibile. E poiché affittare un proiettore e uno schermo costava, e il M° era introvabile,
e io non
sapevo se potessi disporre di una qualunque spesa telefonai al presidente
del Circolo Segattini per avere delucidazioni; il quale Presidente
si irritò che mi mettessi in contatto con lui solo
allora...
In autunno ripartii con la Elieta, con “Un allegro via
vai”, una commedia che per semplicità
e numero di attori e tipologia dei
personaggi pareva adattarsi magnificamente al gruppo di coloro che s’erano
dichiarati disponibili (la difficoltà maggiore fu convincere le due attrici più anziane
a non litigare per il ruolo dell’hostess più provocante). Ma nel corso delle prove
un certo senso di appagamento, il riaffiorare di rivalità (in realtà mai sopite e pare risalenti alle scuole medie) tra le attempate
attrici portò
a un’ultima rottura in prossimità del debutto.
Deciso a non farmi piegare dall’episodio, sostituii i transfughi dell’ultimo mese con
forze fresche provenienti dal Liceo “Galilei” e con Tiziana: la commedia fu rappresentata il 13 ed il 27 novembre a Croce di Piave con
due pienoni di pubblico e notevole consenso di critica, e fu replicata Sabato 21
maggio 2005 al “Da Vinci”.
Il 12 maggio 2005 al “Da Vinci” i ragazzi del Liceo portarono
in scena “Don Giovanni o l’amore per
la geometria”, di Max Frisch. Avrebbero dovuto andare in scena il 19 aprile,
ma il funerale di Papa Woityla provocò una provvida dilazione che consentì qualche indispensabile prova in più.
2006: nasce la “La Compagnia del Cubo”
L’arrivo di Tiziana, con le sue qualità indiscusse, portò tutti quanti a riconsiderare
le reali motivazioni che ci avevano indotto a far teatro.
La funzione sociale
della “Elieta Dipresentare” fino a quel momento era stata quanto mai
evidente: aveva fornito uno spazio espressivo per le frustrate aspirazioni
artistiche di personaggi border-line e di casalinghe depresse;
e aveva contribuito a rasserenare e rivitalizzare diversi climi familiari: le
mogli fuori di casa una o due sere la settimana avevano favorito la natalità, se è
vero che durante la vita della compagnia nacquero ben 5 figli (concepiti
ovviamente dalle attrici con i legittimi mariti). L’Elieta Dipresentare aveva
infine permesso l’incontro di persone di diversa estrazione sociale e culturale: in sette anni
vi avevano partecipato più di
quaranta persone tra casalinghe, autisti, autistici, insegnanti, studenti,
farmaciste, proprietarie di farmacie, steward, tecnici impiantisti ed esperti di
computer, rappresentanti di mobili, venditori di macchine sottovuoto… e
persino un venditore di aspirapolveri.
Era venuto il momento di fare teatro per hobby.
clicca QUI per sapere qualcosa delle commedie che ha scritto
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